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Ferdinando “Fefé” De Giorgi: “Dobbiamo migliorare sempre, senza alibi”

Nel mondo della pallavolo Ferdinando “Fefè” De Giorgi è considerato un gigante. E questo nonostante un’altezza di 176 cm, “178 con la rincorsa” come scherza solitamente lui. Da giocatore prima e da allenatore poi ha vinto praticamente tutto, tra club e nazionale.

La prima volta che è stato ospite di un nostro evento è stato all’Evolution Forum Business School nel luglio 2021, fresco di nomina di allenatore della nazionale italiana maschile. “Lui meglio di nessun altro – ha spiegato Gianluca Spadoni nel presentarlo al pubblico – può testimoniare la differenza che c’è fra giocare e allenare. È un tema importante perché ognuno è giocatore nella propria attività, dato che siamo chiamati in prima persona a fare delle cose. Poi però ognuno, nei propri team, nelle collaborazioni che fa, è anche allenatore. Essere entrambi contemporaneamente è molto difficile perché sono due ruoli diversi.

Ecco, Fefè non solo ha vinto tre campionati del mondo da giocatore e ha avuto altri successi da allenatore, ma ha fatto l’allenatore e giocatore insieme”.

 

“Quando ho pensato al titolo per questo intervento – ha detto De Giorgi – ho scelto “Una sottile questione di equilibri”, perché la mia carriera è stata sempre una ricerca dell’equilibrio anche se trovarlo è stato spesso un po’ complicato”.

Fefè ha dovuto combattere da subito con i limiti imposti dalla natura e dai pregiudizi di giocatori ed allenatori. “A vedermi così non direste che sono stato un giocatore di pallavolo professionista. Durante la carriera me ne hanno dette di tutti i colori nei campi. Quando andavamo a fare le partite internazionali scrivevano che ero alto 1 mt e 80, come se fosse un’offesa che ci fosse un giocatore della nazionale italiana sotto quell’altezza”.

Come è stato possibile quindi raggiungere i livelli massimi? “Me ne sono fregato del giudizio e del pregiudizio degli altri”. Di qui il consiglio: “Non fatevi togliere i sogni dagli altri, non fatevi condizionare da quello che pensano gli altri. Gli altri vi metteranno sempre dei limiti, li metteranno dappertutto. L’importante è quello che volete voi: il desiderio, la voglia, il sogno, dove volete arrivare”.

Il sogno di Fefè è nato da ragazzino, in un paese della Puglia. “Sono andato a provare la pallavolo e mi sono innamorato. È stato un puro caso. Vedevo che riuscivo a essere efficace, mi piaceva. Ed è iniziata la mia storia dei 5 centimetri. Ho cominciato a giocare con le giovanili e mi sentivo dire: “De Giorgi è bravo, se solo avesse 5 centimetri in più…“. Poi sono arrivato a giocare in serie B e mi sentivo dire: “De Giorgi? È bravo ma se avesse 5 centimetri di più potrebbe giocare in A2“. La cosa è andata avanti così fino a quando, a 25 anni, sono arrivato in nazionale. E lì non è che hanno smesso.

Tanta gente mi giudicava, mi dava dei limiti ma la mia voglia di arrivare, di fare, il mio pensiero non era sui centimetri mancanti. Io su quello non posso fare niente, è inutile che sto lì a mangiarmi la testa. Mi sono detto che anche senza questi centimetri posso arrivare a livello che voglio arrivare. Quante cose c’erano per compensare i 5 centimetri? Quindi, mentre gli altri criticavano e parlavano, io ho seguito da solo la mia strada. Si può fare”.

Occorre però agire “perché è chiaro che i sogni si realizzano con l’azione, non si realizzano solo con la visione. E così con questo fisico, sono arrivato a giocare fino a 41 anni e mezzo. Mi dovrebbero fare una statua…”.

La profondità della sua lezione di vita fa il pari con la sua ironia ed autoironia.

De Giorgi ha poi ricordato “la squadra del secolo”, come è stata riconosciuta la Nazionale maschile in cui è stato protagonista da giocatore. “È capitata una serie di situazioni. Io normalmente non parlo di fortuna, perché è una cosa che mi fa un po’ arrabbiare. Quando si lavora, si raggiungono dei risultati e ti dicono che sei stato fortunato è una cosa che mi fa arrabbiare. La fortuna per un atleta, per esempio, è quella di non avere infortuni. Tutto il resto non è una fortuna. È qualcosa che si guadagna con sacrifici e lavoro”.

Quindi il focus è passato sulla sua esperienza di giocatore/allenatore, con cui ha iniziato la prestigiosa carriera in panchina. “Avevo 38 anni, ero a Cuneo, una delle squadre più forti. Avevo giocato lì, mi conoscevano. Ad un certo punto mi hanno detto: “Senti, vorresti fare l’allenatore di questa squadra?”. Io mi son detto: un’occasione così, alla fine della carriera, in una società di serie A1 forte senza fare troppa gavetta. Accetto!

Però voleva dire smettere di giocare e questo mi dava molto fastidio. Mi sentivo qualcosa nello stomaco che diceva no, non mi sento pronto di smettere di giocare. D’altra parte non volevo perdere questa occasione per allenare.  Allora il presidente di allora mi fece la proposta: ma tu lo faresti l’allenatore e il giocatore insieme?

Considerate – ha detto il coach ai presenti – che ad alto livello questa è una cosa non si è mai vista. Io di primo impatto ho detto sì, però, ve lo giuro onestamente, non sapevo neanche da dove iniziare.

Di certo c’è che fare l’allenatore e il giocatore insieme al 100% non è possibile. Se io sto giocando è evidente che non sto fuori a vedere alcune situazioni. Se mi alleno non ho i tempi che ha un allenatore normalmente.

Se un giocatore fa il suo allenamento e poi è libero, un allenatore ha responsabilità, gestisce, organizza. Fondamentalmente non bastano neanche 24 ore se ti metti a pensare troppo. Quindi il pensiero qual è stato? Devo crearmi uno staff, devo crearmi dei supporti che mi aiutino, devo trovare persone di fiducia e devo imparare a delegare alcuni lavori perché io non posso farli tutti.

Quindi avevo un secondo allenatore che doveva avere caratteristiche diverse dal normale, perché doveva fungere da primo allenatore durante la partita e in alcune situazioni di allenamento. Quindi mi serviva un terzo allenatore, un assistente che diventava secondo e così scalava. Avevo lo scout, una persona specializzata sulle risorse umane. Era uno psicopedagogista, con competenze più sulla parte educativa”. Una figura fondamentale per il coach De Giorgi: “L’aspetto motivazionale in un gruppo fa la differenza. Sennò basterebbe prendere i sei migliori giocatori e vinceresti sempre, ma non è così. Occorrono queste figure che aiutano a far uscire le potenzialità degli atleti”.

Una volta creato lo staff, sono stati fissati ruoli ben definiti. “I problemi degli staff nascono nel momento in cui ci sono ingerenze trasversali. Un po’ come gli organi del corpo: il cuore deve fare il cuore, il fegato deve fare il fegato. Se il fegato comincia a fare il cuore qualche scompenso rischiamo di averlo. Quindi ho scelto persone competenti, con feeling ma che sapessero rispettare bene i ruoli”.

Ovviamente è un po’ cambiato il rapporto con gli altri giocatori: “Non sei solo il compagno, sei anche l’allenatore. Ad esempio ho deciso per l’allenamento di non cambiarmi nello stesso spogliatoio loro. Mi facevo trovare nello spogliatoio quando loro arrivavano, in modo tale che potessi vedere come stavano, spiegare l’allenamento, dopodiché me ne andavo. Finito l’allenamento entravo con loro nel loro spogliatoio, per parlare, e me ne andavo quasi subito. Questo grazie all’esperienza che ho dello spogliatoio, perché dopo l’allenamento sull’allenatore ne dicono di tutti i colori, è normale.

Però per la partita no. Lì mi cambiavo con loro perché nella partita io ero giocatore. Il messaggio che volevo trasmettere era: Io sono più giocatore che allenatore perché lì devo condividere tutte le situazioni di campo con loro. Quando fai l’allenatore giocatore devi essere molto più attento su tutti i particolari sulle minime cose perché il ruolo è già ambiguo. Allora devi essere molto limpido, non devi lasciare ombre in campo e fuori, come vedi una minima ombra la devi chiarire. Quando hai questo tipo di ruolo, di rapporto, devi chiarire molto, tutto, anche in anticipo se serve, anche se la cosa non è proprio successa, anche se vedi qualche mugugno perché altrimenti diventa complicato.

Questa cosa me la sono ritrovata come allenatore e mi ha aiutato molto, perché è un’altra di quelle cose che un allenatore dovrebbe fare normalmente in tutte le situazioni. L’allenatore deve affrontare le situazioni, non puoi fare finta di nulla e mettere la polvere sotto al tappeto. Perché poi succede che quando arrivi nei momenti importanti, nei play-off, le squadre avversarie tolgono il tappeto e vedono quello che hai nascosto. Escono tutte le cose buone e le cose cattive”.

Differente è stato anche l’approccio durante gli allenamenti. “I primi giorni della settimana – ha raccontato ancora – intervenivo come allenatore. Cioè anche un po’ duro. Da allenatore io ti devo spingere e se c’è bisogno di dare una strigliata devi darla e può rimanere un po’ lo strascico. Quindi avevo deciso di non intervenire più in quel modo a ridosso della partita, ma lo facevo fare agli altri allenatori in modo tale che non potevo creare contrasti troppo eccessivi”.

 

A proposito di secondo allenatore, De Giorgi ha quindi raccontato un episodio divertente e illuminante allo stesso tempo. “Durante la partita io gli lasciavo chiaramente la possibilità di scegliere se chiamare timeout o di fare dei cambi. Ad un certo punto gli ho detto: Senti Mario, se vedi che sto giocando male cambiami. Non c’è problema. È capitata una partita, al primo set vedo un cambio e c’era la paletta col mio numero. Sinceramente non mi sembrava di giocare male, però sono uscito. Inizia il secondo set e parto titolare perché la squadra la scrivo io. Dopo un po’ di nuovo mi cambia e al quarto set succede di nuovo. A quel punto quando sono uscito gli ho detto: “Mario, il prossimo cambio lo faccio io, però sei tu perché ti mando via!“. Va bene essere credibili ma così è passare proprio dall’altra parte”.

Tornando serio, De Giorgi ha quindi spiegato la propria filosofia in panchina: “Io sono uno che vede il giocatore come persona, al di là dei ruoli in campo. Ho tre campi dove posso intervenire, tecnico, fisico e mentale. A me interessa lo sviluppo non solo tecnico, non solo fisico, non solo mentale, mi interessa lo sviluppo generale, il miglioramento generale. Ecco perché, vi dicevo prima, io devo creare situazioni, un ambiente di apprendimento, dare strumenti ai giocatori, ed anche a me, per farli migliorare in qualsiasi cosa”.

Questo mi nasce un po’ dall’idea che ho sempre avuto anche da giocatore. Io avevo sempre un obiettivo a fine anno: migliorare in qualche aspetto. Dal punto di vista tecnico, fisico o mentale, in qualcosa devo aver fatto un passo avanti. Anche negli anni in cui siamo retrocessi dovevo essere migliorato in qualcosa. Ad esempio un anno a Falconara siamo retrocessi, però Velasco, mister della Nazionale, mi convocò lo stesso. E mi spiegò che mi aveva visto sempre giocare a un certo livello e fare delle belle cose.

È possibile migliorare anche quando il contesto è difficile però occorre non farsi trascinare dalla corrente. Occorre avere degli obiettivi e non abbassare il proprio livello. Poi il livello totale della squadra potrebbe non bastare per salvarsi ma il tuo livello tu lo mantieni anzi cerchi possibilmente di migliorarlo.

Penso che una delle cose più importanti per chi gestisce un gruppo e per chi è anche giocatore in campo e ha ruoli importanti è di dare l’esempio. Tu puoi fare tutta la filosofia che vuoi ma i veri leader, i veri personaggi che guidano, sono quelli che sono da esempio. Quello che io chiedo, sono il primo a farlo perché ci credo”.

E a proposito di leader, il pensiero è andato subito a Julio Velasco, tecnico di quella nazionale italiana passata alla storia come ‘dei fenomeni’. “Nella squadra c’erano molti giocatori bravi ma devo dire che una gran parte del lavoro la fece Velasco che, da vero leader, diede un’idea del percorso da fare. Ad esempio fece una grande battaglia contro gli alibi, atteggiamento tipico di noi latini. Quando succede qualche problema è sempre colpa di qualcos’altro. Per un anno ci fece fare amichevole all’est Europa, soggiornando in alberghi di medio/basso livello, senza la possibilità di portarsi cibi da casa. La sera c’era la partita poi la mattina 3 ore di allenamento. Era un vero e proprio bootcamp sulla scomodità.”

Uno solo il messaggio: “Non siamo responsabili della faccia che abbiamo ma siamo responsabili della faccia che facciamo. Non dobbiamo trovare motivi che non dipendono da noi perché si possa realizzare qualcosa. Bisogna trovare il modo per realizzare le cose importanti”.

Un grande insegnamento che Fefè De Giorgi ha messo in pratica alla guida della Nazionale italiana, vincendo in soli 2 anni medaglia d’oro e d’argento ai campionati Europei 2021 e 2023 e vincendo i Mondiali 2022

Questo contenuto è tratto dal corso di formazione Evolution Forum Business School

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