
Parte A • “LO SO CHE CI SEI”
Diversi anni fa, assetato di esperienze e di luoghi non consueti, mi recai in India.
Dopo i colori del Rajasthan, la bellezza del Taj Mahal, le pire di Benares e i fiori che scendono sulle acque del Gange, una sera arrivai a Calcutta. L’aereo atterrò alle 21,30 del 31 dicembre, la notte di San Silvestro. I turisti che scesero dall’aereo insieme a me corsero eccitati a recuperare i bagagli e s’infilarono nei minibus degli hotel di lusso che li attendevano fuori dell’aeroporto, pregustando i festeggiamenti di fine anno. Arrivai in centro con un taxi. Scesi in un viale elegante: un parco su un lato, e sull’altro un susseguirsi di hotel. Presi il mio bagaglio leggero e camminando tra aiuole curate e auto di lusso parcheggiate… incontrai Calcutta. Era lì, sdraiata di traverso sul marciapiede, con gli occhi chiusi e gonfi, il corpo rattrappito e raccolto contro un palo. Pochi metri più in là ce n’era un’altra, forse più giovane. A poca distanza dall’entrata di un grande albergo ne vidi altre tre, vicine e, accanto a loro, cinque o sei uomini nelle stesse miserabili condizioni. Erano i più disperati di Calcutta, abbandonati sui marciapiedi nella sola attesa della morte. Gente che ha finito di vivere, gente che è stata sfrattata dal suo riparo di cartone, gente malata e stanca di lottare.
Allegri turisti in smoking uscivano ubriachi dall’albergo con una ragazza sotto braccio e una bottiglia di champagne nell’altra mano. Storpiavano vecchie canzoni, urlavano, erano assurdi. Sembrava che non vedessero quella gente buttata sui marciapiedi, o forse ne erano semplicemente abituati. Io m’infilai nell’albergo più vicino. Feci una doccia. Poi presi la mia guida di Calcutta e passai la notte a leggere le storie di quell’immensa città. Lessi che il distretto 26 di Calcutta è un posto sconsigliato, perché al 251 di Kaligat Road c’è il tempio della dea Kalì, la dea della guerra, la dea della morte, la dea dell’intolleranza. Pare che questo tempio sia il più frequentato dagli induisti di Calcutta e lì, evidentemente, non amano i pullman delle comitive, né i curiosi, né tanto meno i flash delle macchine fotografiche. Se una cosa è sconsigliata, io di solito mi ci tuffo a capofitto. Infatti, il giorno dopo e di buon’ora, mi misi una
maglietta, un paio di jeans e mi recai in Kaligat Road.
Sceso dal risciò, la prima cosa che vidi fu un crematorio. A Benares, sulle rive del Gange, i corpi dei morti prima di essere bruciati vengono cosparsi di unguenti profumati e avvolti in stoffe colorate. Poi lasciano cadere sopra dei fiori e infine li bruciano.
Lì invece no. I corpi sono maledettamente nudi, il volto cade riverso con la bocca spalancata e mentre salgono le fiamme le guance si gonfiano e si anneriscono.
Quando il fuoco si placa, sulla pira resta quel corpo rimpicciolito e ritratto, finché, in un attimo, si sfalda e si cancella.
Accanto al crematorio e al suo messaggio di morte, in evidente contrasto, si trova
un imbarazzante ritrovo di prostitute. Si rivolgono aggressive ai passanti. I rifiuti vengono accompagnati da insulti e sputi.
In fondo alla strada finalmente intravidi la mia destinazione, il tempio della dea
Kalì.
L’entrata del cortile era un incrocio di infermi e derelitti che con una mano mostravano il loro corpo deturpato e con l’altra chiedevano aiuto.
Fui fortunato, incontrai un anziano del posto che per poche rupie mi fece entrare, e lì vidi quello che, ai miei occhi, sembrava un girone dell’inferno di Dante. C’erano alcune centinaia di persone che urlavano e si spingevano l’un l’altra; tutte cercavano di sopravanzare, di avvicinarsi a quella statua per deporvi dei soldi. Non c’era rispetto, c’era sopraffazione. Alcuni prendevano quelli davanti a loro e li ributtavano indietro per prendere il loro posto, altri provavano a passare sopra le teste per far prima, alcuni cadevano, uno venne graffiato e cominciò a sanguinare. Tutti gridavano. Io restai lì in disparte.
Senza capire.
In fondo al tempio, la statua della dea Kalì era tremenda: un volto nero con tre occhi di fuoco e le quattro braccia che brandiscono una spada e insieme reggono una testa umana, mozzata. Una lunga lingua dorata che sembra godere di quel sacrificio.
Poco più in là, alcuni fedeli compravano teneri agnellini neri. Li facevano lavare, li contornavano di ghirlande di fiori gialli e bianchi, e dopo la sacralità di una preghiera li
deponevano su un altare e qui li decapitavano con una spada. Le teste rotolavano nel cortile lasciando una triste striscia di sangue sul cemento. Alcuni cani sopraggiungevano al trotto e avidamente leccavano quello scempio, con gli occhi degli agnellini morti che mi fissavano sbarrati.
Non decisi di andarmene, fui costretto.
Improvvisamente mi venne in mente che a Calcutta viveva Madre Teresa, che all’epoca era ancora viva. Vicino a me c’era un uomo, uno dei pochi che non prendeva parte a quell’incrocio di gomitate e di spinte. Feci due passi verso di lui e gli chiesi: – Mi scusi, saprebbe dirmi dove si trova la Casa della Misericordia di Madre Teresa?
L’uomo mi guardò bene prima di rispondere, forse meravigliato che mi trovassi in
quel tempio e con quella domanda.
– Nirmal Hriday?
– Non so… Madre Teresa…
– Nirmal Hriday, in bengasi vuol dire “Cuore Immacolato”.
– Sì, quella. Sa dirmi dove si trova?
– La casa della Madre è proprio qui – disse.
– Come qui, …dove qui?
– È qui ho detto. È dietro questo muro, confina con il tempio, è il portone dopo.
Andai. Tutti vi possono andare. È sempre aperto. Se nel tempio della dea Kalì il fragore era assordante, nella casa della Madre si sentiva parlare appena. Non esiste un atrio. Appena entrati si viene catapultati in un enorme stanzone dal tetto curvo, pieno di lettini. Le brande erano ordinate, le lenzuola davano sul bianco con una striscia d’azzurro tenue. Lì rividi Calcutta, l’altra Calcutta. Era presente in tutte le sue
forme disgraziate, in tutte le sue aberrazioni e malformazioni e in tutta la sua straordinaria compostezza.
Madre Teresa quel giorno non c’era, tuttavia era pieno di volontari e di suorine che si davano tutte un gran daffare. Queste persone splendide vanno in giro di notte coi pick up a raccogliere i moribondi dalle strade della città; li sollevano con lentezza dal marciapiede e li portano in quella casa: li lavano, li dissetano, se riescono ancora a mangiare qualcosa, danno loro un po’ di riso. Il più delle volte li accompagnano all’abbandono della vita tenendo loro la mano. Queste persone sofferenti sono
talmente riconoscenti da andarsene senza un lamento, semplicemente stringono
quella mano.
Mi misi a camminare tra quella gente incrociando il loro sguardo. Ero sempre io il primo a distoglierlo, loro non lo fanno. Prendono i loro occhi neri e te li conficcano nel cuore, lacerandolo. Molti di quegli sguardi ancora mi perseguitano. Quel giorno vidi morire due persone, un uomo e una donna anziana. La donna anziana spirò in silenzio, senza un sussulto, né un gemito. Solo alcune lacrime le scesero lungo il viso. La suora le teneva la mano e nel momento della morte baciò il suo pianto sulla sua bocca.
Restai lì per non più di mezzora e la cosa più stupefacente, più straordinaria e più incredibile è che non ho mai visto, in nessun altro luogo del mondo, persone più serene di quelle. Stavano per morire, e lo sapevano, stavano per andarsene, eppure erano serene. Non credo che questa meravigliosa serenità fosse dovuta soltanto al fatto che molti di loro credono nella reincarnazione. Forse c’era un altro motivo. Forse era la prima volta che avevano qualcuno vicino che diceva loro, che esprimeva loro, che faceva percepire loro, qualcosa tipo… “lo so che ci sei”.
Tratto da “il Segreto del Carisma”
Emanuele Maria Sacchi
Franco Angeli Editore
Longseller – 19 ristampe